La disputa in merito alla registrabilità del segno “Il boss dei panini”, relativo ad un chiosco di street food a Santa Maria Capua Vetere, è infine giunta all’esame della Corte di Cassazione che, dopo il parere dell’UIBM e della Commissione Ricorsi, si è trovata a dover dirimere la questione in via definitiva e affermare se la confondibilità con il marchio “Boss” della nota società tedesca “Hugo Boss” potesse comportare la mancata registrazione del marchio successivo.
La Corte, raggiunta da un’impugnazione, ha rivisto la precedente decisione della Commissione Ricorsi, modificando la parte nella quale si evidenziava che il termine “boss” era ormai utilizzato quotidianamente nella lingua italiana e rendeva perciò debole il marchio. La Cassazione ha quindi ribaltato questo parere, stabilendo che la natura patronimica del marchio e la sua notorietà sarebbero sufficienti a stabilirne la forza. È stato così accolto il ricorso della maison, nota per le sue linee di prodotti che vanno dagli abiti d’alta moda alla profumeria, a seguito di un contenzioso legale durato ben otto anni.
Uno degli elementi più dibattuti della sentenza è l’aspetto legato all’utilizzo comune della parola “Boss”. Secondo i giudici della Corte la giurisprudenza di legittimità sarebbe chiara su questo punto: secondo quest’ultima sarebbero “deboli” i marchi che risultano concettualmente legati al prodotto, dal momento che l’immaginazione che li ha partoriti non è andata oltre il rilievo di un carattere, di un suo elemento, o l’utilizzo di termini di diffusione comune che non potrebbero essere oggetto di un diritto esclusivo. Quindi, secondo i giudici, una parola del linguaggio comune può dare vita ad un marchio “forte”, a condizione che sia difficoltoso per il consumatore non identificare un legame concettuale tra la parola in questione e il marchio contrassegnato.
Per evitare la confusione che potrebbe generarsi da questa situazione è fondamentale il carattere distintivo del marchio “forte”, che rende iconico e unico il contrassegno rispetto al marchio debole, permettendo al primo di rimanere impresso nella mente del consumatore e impedendo al secondo di imporsi al posto del primo nell’immaginario collettivo.
La sentenza rappresenta una vittoria per la casa di moda tedesca, che aveva già esposto davanti all’UIMB e alla Commissione Ricorsi le proprie ragioni, rimarcando il fatto che il marchio “Boss” fosse noto al grande pubblico e avesse dunque natura distintiva e, pertanto, anche “forte”. La decisione oggetto di impugnazione, secondo il parere dei giudici della Suprema Corte, non aveva preso in esame né la notorietà del marchio né tantomeno il suo carattere patronimico, già di per sé indice di forza (anche se non sufficiente ad impedire, da solo, la mancata registrazione del marchio della controparte).
In ultima istanza quindi per la Cassazione l’impedimento alla registrazione non è dovuto, in via esclusiva, alla notorietà del marchio “Boss” e alla confusione che la coesistenza dei due marchi potrebbe causare, quanto piuttosto al fatto che il marchio successivo, attraverso un meccanismo di agganciamento, potrebbe indebitamente avvantaggiarsi sul mercato dell’esistenza del marchio precedente, traendone un ingiusto profitto.